Albino Morari


Nato il 24 novembre 1925 a Roverbella, un paesino nelle campagne dell'entroterra mantovano, ha trascorso la gioventù e la prima maturità a Verona.
È ormai arcorese, da 40 anni.
A 14 anni iniziò a lavorare in una vetreria veronese.
A 18 anni, nel 1943, ricevette la chiamata a militare. Racconta che lo equipaggiarono di una divisa scalcinata, di un badile e di un piccone: Genio Zappatori.
Iniziò il suo servizio a Verona. Fu quindi trasferito, con lo stesso incarico, a Padova e poi a Siena. Nel febbraio del 1944 scoprì che gli toccava di andare a combattere...magari contro italiani: le sue "armi" – badile e piccone che stazionavano ai piedi della sua branda – erano stati sostituiti da un fucile. Decise di disertare assieme ad altri 3 compagni (un padovano e due ragazzi veneziani: uno di loro – "particolarmente sveglio", ricorda Albino con riconoscenza – lavorava in fureria e procurò delle false licenze premio).
Scapparono in treno durante la libera uscita. Incapparono subito in bombardamenti.
Decisero furbescamente – protetti dalle false licenze – di rifugiarsi a Bologna presso una caserma tedesca dove vennero accolti, nutriti e poterono raccogliere l'offerta di un passaggio su un camion militare tedesco per Padova.
Da Padova Albino prese quindi un treno per Verona: finalmente a casa.
Scampato pericolo? No: il maresciallo dei Carabinieri fece sapere alla famiglia che Albino era ricercato. Il ragazzo si rifugiò presso la nonna, al paese natio, per qualche mese. Poi, quando sembrò che le acque si erano chetate, fece ritorno a Verona e visse tranquillo per un po'... per troppo poco. Il 2 novembre 1944 tre militi delle Brigate Nere si presentarono a casa sua: lo arrestarono e lo consegnarono ai tedeschi.
L'accusa era di diserzione: contemplava la pena di morte.
In carcere trovò compagni arrestati con svariate accuse. Particolarmente vicini gli furono coetanei (che poi ritrovò in Germania) con storie simili alla sua e un medico polacco che nel suo paese era entrato al servizio dei tedeschi ma, in Italia, era stato
scoperto mentre sabotava i veicoli della Wermacht.
Albino riuscì inspiegabilmente ad evitare la fucilazione, probabilmente a causa della giovane età – sembrava addirittura più giovane di quant'era – dei suoi modi semplici e grazie forse alla pietà di un "padre di famiglia" tedesco.
Restò in carcere, presso altra caserma di tedeschi delle SS, e più tardi fu trasferito al campo di concentramento di Bolzano.
A fine dicembre 1944, subito dopo Natale, partì per un campo di concentramento tedesco: caricato su un carro-bestiame assieme a tanti altri poveri condannati fu tradotto a Flossenbürg: a Capodanno c'era di già.
Flossenbürg era un campo di sterminio (con tanto di forno crematorio): i meno malconci fra gli internati – di tante nazionalità e per vari motivi – erano sottoposti anche a lavori forzati all'esterno (in fattorie, nelle campagne, nelle cave, a riparare – nei paesi dei dintorni – i danni che i bombardamenti alleati provocavano). Spesso al ragazzo toccavano tali lavori, che a volte – soprattutto nelle fattorie – si dimostravano meno ingrati della vita nel lager.
Fu molto di aiuto per Albino l'amicizia che aveva stretto in carcere , sin da Verona, con il medico polacco. La professionalità di quest'ultimo veniva sfruttata – per tedeschi e internati – dalle guardie del campo, in un'infermeria allestita alla buona in una baracca. Il polacco scelse ben presto Albino come suo aiutante facilitandogli alquanto la vita.
L'attività all'interno e all'esterno era pesantissima, il trattamento poco umano, il cibo estremamente scarso: molti dei suoi compagni morirono per malattie e fame, molti furono eliminati dai tedeschi. Albino riusciva a resistere data la sua gioventù e la sana costituzione. Era allo stremo quando l'8 maggio 1945, a seguito della disfatta dell'esercito nazista, Flossenbürg fu raggiunta dalle truppe sovietiche e gli internati furono liberati.
Tutti coloro che non morirono ancora per le malattie gia contratte, per la debilitazione o per indigestione (non erano più abituati a mangiare), furono presto trasferiti in una località dell'Ungheria, nei pressi di Budapest e poterono godere di attenzioni sanitarie e di una non semplice "rieducazione al cibo".
Albino poté partire dall'Ungheria alla volta dell'Italia soltanto il 10 Agosto con un convoglio ferroviario assistito dalla Croce Rossa Internazionale. Assieme ai suoi compagni di viaggio fece di volta in volta tappa presso le forze militari alleate che erano di stanza nei paesi attraversati ricevendo le cure mediche del caso, pur se sommarie.
Arrivò a casa il 24 agosto 1945, lacero e irriconoscibile.
Non appena gli fu possibile riprese il lavoro a Verona, in vetreria: ai forni e agli stampi.
Nel 1958, attratto da offerte di lavoro, si trasferì in Brianza e fu impiegato alla "Vetreria Brianzola" di Lesmo dove restò per vent'anni.
Quando la vetreria chiuse fu assunto dalla Piaggio-Gilera di Arcore sino al giorno del suo ritiro in pensione.